Le dirò con due parole...
a cura di Marco Targa
Una fiaba cinese per il «cervello moderno».
Versi tronchi e profumi misteriosi in un’opera novecentesca
di Anselm Gerhard
Quale Turandot?
Questioni aperte sul finale dell’opera
di Enrico Girardi
Tre enigmi dell’ultimo Puccini:
processo compositivo, posizione storica, modernità teatrale
di Gerardo Guccini
Un ritratto
di Alberto Bosco
Puccini e il quarto enigma.
Intervista a Gianandrea Noseda
a cura di Susanna Franchi
Turandot non esiste.
Intervista a Stefano Poda
a cura di Simone Solinas
Argomento - Argument - Synopsis - Handlung
Struttura dell’opera e organico strumentale
a cura di Enrico M. Ferrando
Le prime rappresentazioni e l’opera a Torino
Libretto
Le dirò con due parole...
a cura di Marco Targa
Tartaglia, Truffaldino, Brighella e Pantalone alla corte cinese del Gran Khan Altoum; il principe dei tartari Nogaesi, innamorato di una spietata principessa da Mille e una notte impegnata in rivendicazioni femministe; una serva gelosa, eunuchi, un carnefice... Una singolare combinazione di personaggi, che potrebbe sembrare un pastiche di teatro sperimentale del XX secolo, e invece è la settecentesca Turandot di Carlo Gozzi, una delle sue più riuscite “fiabe teatrali”, genere con il quale il conte veneziano intendeva proporre una drammaturgia alternativa alla nuova commedia realista goldoniana. Cosa abbia a che fare questa fantasiosa miscela di fiabesco, comico e tragico con il teatro di Puccini oggi lo sappiamo tutti, ma quando il librettista Renato Simoni propose per la prima volta il soggetto al maestro non era per nulla scontato, conoscendo le sue preferenze, ch’egli vi si appassionasse tanto da decidere di mettersi subito al lavoro per trasformarla in opera. Al destino invece l’opera piacque incompiuta: si sa che la morte giunse a fermare la mano di Puccini prima che egli potesse completarne il finale...
Una fiaba cinese per il «cervello moderno».
Versi tronchi e profumi misteriosi in un’opera novecentesca
di Anselm Gerhard
Solo accaniti denigratori del canto possono sfuggire all’effetto della melodia di «Nessun dorma!...». In questo assolo per tenore Puccini sembra aver riunito tutto ciò che aveva garantito il successo al belcanto nel melodramma ottocentesco. Uno schizzo, fra gli appunti lasciati al momento della morte, fa legittimamente supporre che il compositore intendesse riprendere questa idea alla fine dell’opera per ratificare l’esito, più o meno felice, di questa fiaba musicale. Ma, nonostante la sconvolgente efficacia, solo poche melodie dalle opere di Puccini, e specialmente quelle che innervano Turandot, motivano così bene come questa il rimprovero costantemente mosso a Puccini a nord delle Alpi: e cioè che egli sarebbe sconfinato nel Kitsch e si sarebbe preso libertà non consentite con l’orecchio del pubblico...
Quale Turandot ?
Questioni aperte sul finale dell’opera
di Enrico Girardi
Complice la centralità dei rispettivi autori nella storia del teatro d’opera del Novecento, Turandot di Puccini, Lulu di Berg e Moses und Aron di Schönberg rappresentano i casi di incompiutezza più noti, affascinanti e studiati tra i molteplici di quella prima metà di secolo così instabile e innovativa. Ma se quello di Lulu è un caso relativamente semplice, in quanto ne fu causa la mera circostanza della morte dell’autore1, e quello di Moses und Aron è dovuto a una scelta “filosofica” del musicista logica e comprensibile, quello di Turandot è certamente il più complesso, come peraltro dimostra l’amplissima mole di studi critici e musicologici che ha suscitato2. Le ragioni di tale complessità si annidano sia sul fronte drammatico sia sul fronte musicale, come si cercherà di chiarire. E sono all’origine di quelle diverse possibilità di mettere in scena oggi l’ultimo titolo pucciniano tra le quali ogni direttore artistico e musicale ha il dovere morale, oltre che artistico, di scegliere...
Tre enigmi dell’ultimo Puccini:
processo compositivo, posizione storica, modernità teatrale
di Gerardo Guccini
Sguardi divergenti
L’ultima opera di Giacomo Puccini è stata fatta oggetto di analisi che presentano esiti spesso incompatibili. Da un lato, gli studi evidenziano l’assimilazione delle esperienze musicali di punta (Debussy, Stravinskij, Schönberg, ma anche Busoni, Casella e Malipiero), l’esteso rinnovamento del linguaggio e, soprattutto, la tensione a uscire dalle secche drammatiche e formali del “puccinismo”; dall’altro, rilevano il recupero di strutture chiuse (quali l’aria e il concertato), la stantia prevedibilità dei principali tipi scenici (l’eroico tenore, la femmina-vampiro, l’innamorata-vittima) e il paradossale ritorno alle soluzioni pre-veriste del grand-opéra. C’è chi legge in quest’opera una formidabile risposta alla crisi del teatro operistico, chi un segno del carattere irreversibile assunto da questa stessa crisi, chi vi esalta la capacità di assorbire le molteplici istanze del mondo moderno riassumendole in un nuovo tipo di spettacolo, e chi reputa il suo modernismo linguistico nient’altro che una decorazione applicata alle convenzionali strutture della tradizione melodrammatica o un puro e semplice fraintendimento, incapace di dedurre dal rinnovamento delle modalità compositive la dissoluzione degli antichi criteri mimetico-rappresentativi...
Un ritratto
di Alberto Bosco
Invece di scervellarsi a cercare un nuovo finale all’incompiuta Turandot alternativo a quello di Alfano, i compositori che amano veramente Puccini potrebbero pensarne uno nuovo per la Rondine, l’opera più leggera e autoironica di Puccini. Infatti, se non fosse per gli sdilinquimenti che ne sciupano il terz’atto, da questo vivacissimo capolavoro risulterebbe chiaro anche ai detrattori del compositore lucchese – quelli, per intenderci, che non sopportano il suo sentimentalismo – quanto distaccato egli fosse ormai nel 1914 dal mondo poetico che lo aveva reso famoso con la “trilogia” Bohème-Tosca-Butterfly. Questa insoddisfazione, questa ricerca di nuove vie più in sintonia con i tempi moderni, si rivelò in lui già dopo la composizione di Madama Butterfly, come ben si può vedere dalle lettere di quel periodo, in cui Puccini è più indeciso che mai nella scelta di nuovi soggetti, per trovare una prima laboriosa realizzazione nell’opera-western La fanciulla del West e continuare in modi più pienamente riusciti nel Trittico e nella Turandot...
Puccini e il quarto enigma.
Intervista a Gianandrea Noseda
a cura di Susanna Franchi
Dopo il suo primo Tristano e Isotta, che ha inaugurato la stagione, secondo debutto per Gianandrea Noseda, giunto alla sua prima Turandot.
Che Puccini è quello che troviamo in «Turandot»?
È un Puccini che non fa nulla di quello che ti aspetteresti dopo il Trittico, perché guarda indietro, prendendo spunto da una fiaba del 1762 di Carlo Gozzi. Cerca un’ispirazione nel dualismo donna carnefice, ovvero Turandot, e donna vittima, Liù, in una fiaba; ma il fatto di scegliere una fiaba ci dà la sensazione che si volesse distaccare dall’argomento. In Turandot Puccini è sicuramente meno emotivamente coinvolto. Lo scorso anno ho diretto al Teatro Regio Manon Lescaut, che è un’opera giovanile, e lì ci sento tutto il fuoco e la passione, qui invece è come se lui guardasse da fuori, con un minore coinvolgimento. Non dimentichiamo cosa aveva fatto Stravinskij con quello che è definito il suo periodo neoclassico: anche in quel caso, e penso per esempio a Pulcinella, lo sguardo va indietro, al passato. Certamente Puccini utilizza tutta la palette tecnica a disposizione di un compositore del Novecento, eppure tutta la sua perizia compositiva, andando a scegliere un soggetto del passato, porta a una certa distanza, a un non-coinvolgimento...
Turandot non esiste.
Intervista a Stefano Poda
a cura di Simone Solinas
Dopo Thaïs di Jules Massenet, che nel 2008 lo rivelò al pubblico italiano e nel 2012 venne annoverata dal «Bbc Music Magazine» tra le venti più significative produzioni internazionali delle ultime due decadi; dopo la prima assoluta di Leggenda di Alessandro Solbiati (da Dostoevskij) nel 2011; dopo il nuovo Faust di Charles Gounod del 2014, la quarta tappa di Stefano Poda al Teatro Regio è per Turandot.
Per quale motivo Puccini, sempre così votato alle passioni umane, ha affrontato nella sua maturità un soggetto antipsicologico, fatto di archetipi più che di persone, come la fiaba teatrale di Carlo Gozzi?
Ho la sensazione che Puccini, dopo l’enorme successo raggiunto ricorrendo a titoli di vicende concrete, contemporanee o storiche, avesse bisogno di evadere e rifugiarsi in una dimensione fantastica; di osare, diciamo, il ritorno a un mondo più antico, più mitico, una maniera di dare un nuovo impulso al melodramma del Novecento tornando alle origini...
Argomento - Argument - Synopsis - Handlung
Struttura dell’opera e organico strumentale
a cura di Enrico M. Ferrando
Per quanto le opere di Puccini siano concepite nel genere del “dramma musicale”, e quindi come una struttura in linea di massima priva di soluzioni di continuità, al loro interno è sempre possibile individuare aree equivalenti a “pezzi chiusi”, nelle quali prevale l’espansione lirica; in Turandot, in particolare, il Maestro manifesta una particolare attenzione al disegno della forma, che viene delineata con consumata abilità rivisitando in maniera originale i principi costruttivi della tradizione melodrammatica ottocentesca (il classico finale concertato ispira i nn. 7 e 13; le due arie giustapposte di Liù, nn. 17-18, riecheggiano la “solita forma” in quattro movimenti)...